lunedì 24 febbraio 2014

CONSIGLIO - La mafia non ha vinto, di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca, Laterza 2014.



Un libro destinato a far discutere quello di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca. La mafia non ha vinto contiene infatti una sorprendente critica del processo sulla trattativa stato-mafia, sostenendo che si tratti di un processo ‘illegittimo’, che la trattativa fu invece ‘legittima’ e che servì a salvare la vita dei cittadini italiani, oltre a quella di alcuni esponenti politici.
Nell'esporre questa tesi, lo storico e il giurista ricostruiscono i fatti di quei convulsi primi anni novanta, spiegando come la mafia si fosse pericolosamente avviata su una china 'terroristica' e che la tattica stragista (in cui si iscrivono l'omicidio Lima, le stragi di Capaci e di Via d'Amelio), se non fosse stata fermata, avrebbe portato ad uno spargimento di sangue inarrestabile. In quel periodo lo stato, secondo gli autori, non aveva altra scelta se non quella di 'trattare', se così si può chiamare lo scambio intrattenuto con i mafiosi, le cui prove per ora si limitano a quelle 334 revoche del 41bis. Si può quindi, scrivono Lupo e Fiandaca, fare appello ad uno «stato di necessità» che giustifichi una trattativa fatta per il bene dei cittadini e che, in ogni caso, non costituisce un 'reato' secondo la legge.
È sui capi d'accusa (violenza o minaccia a un corpo politico) del processo sulla trattativa che si concentra Fiandaca, il quale li definisce un «espediente giuridico» con l'obiettivo di «colorare indirettamente di criminosità la stessa trattativa». Sarebbero quindi i pm palermitani a capo del processo ad essere tacciabili di un «pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore» e di un erronea convinzione che la mafia vinca sempre ed abbia vinto anche stavolta, nonostante l'incarcerazione di Riina e la fine delle stragi- una convinzione contraria alla loro opinione ma che gli autori sono pronti a scommettere, continuerà a prevalere ancora a lungo.
Il paradigma dello «stato di necessità» è legittimamente applicabile anche in situazioni siffatte e il ricorso ad esso è idoneo a giustificare eventuali interventi o decisioni extra legem dello stesso potere esecutivo; ma, beninteso, ad una condizione: cioè che i bilanciamenti e le scelte di valore sottostanti a tali interventi o decisioni si uniformino, comunque, al criterio della salvaguardia del bene di rango prevalente. In questi termini e limiti, l’eventuale scelta politico-governativa di fare ‘concessioni’ ai mafiosi, in cambio della cessazione delle stragi, risulterebbe legittima perché giustificata – appunto – dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini: scegliendo, sotto la loro responsabilità politico-istituzionale, i mezzi in concreto di volta in volta più adeguati a questo scopo.
Ed è, forse, superfluo precisare che parlare di stato di necessità nel senso qui proposto non equivale per nulla a evocare la obsoleta categoria della «ragion di Stato»: nel nostro caso, eventuali deroghe alla legalità formale, decise a livello governativo, avrebbero infatti come motivazione non già la tutela di interessi statali da mantenere segreti in obbedienza a una logica di potere (o di potenza), secondo la tradizione degli arcana imperii; bensì il perseguimento di un fine salvifico secondo la prospettiva tipica di un istituto come lo stato di necessità, che considera per l’appunto comunque non punibili le azioni proporzionalmente finalizzate a contrastare il pericolo incombente di danni gravi alle persone in carne ed ossa.
Si ha l’impressione che un pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore, motivato da una sorta di incondizionata avversione morale nei confronti di ogni ipotesi di calcolo costi-benefici, abbia invece precluso ai pm palermitani di lumeggiare adeguatamente la dimensione prospettica della divisione dei poteri, con le implicazioni che ne derivano rispetto agli spazi di liceità giuridica (il giudizio etico-politico è altra cosa) da riconoscere ad eventuali scelte politiche lato sensu trattativiste.
[...]
Ma ipotizziamo pure che il presidente Scalfaro, nel perseguire per i motivi già detti un ammorbidimento del 41 bis, fosse stato davvero al centro di un informale circuito costituito a vario titolo da Conso, Capriotti, Di Maggio, Parisi, lo stesso Mori, ecc. – soggetti tutti favorevoli a dare segnali di distensione allo scopo di arrestare l’escalation stragistica. Ebbene, anche se così fossero andate le cose, il giudizio sulla liceità dell’operazione rimarrebbe immutato: se una decisione è infine presa da un ministro competente, essa è penalmente insindacabile perché rientra – come in questo caso – in uno spazio di discrezionalità politica. L’assumerla in piena solitudine, o sulla base di un informale concerto con altri esponenti delle istituzioni, non cambia molto: la decisione rimane giuridicamente legittima in entrambi i casi. Altra cosa sono le valutazioni politiche o di opportunità.
Se si riconsidera a questo punto l’orientamento di fondo privilegiato anche implicitamente dai pubblici ministeri – che li porta a guardare con sospettosa diffidenza ad ogni iniziativa extragiudiziaria tendente allo scopo di bloccare le stragi, e ciò pure a costo di rimuovere il principio della divisione dei poteri –, l’impressione che in definitiva si trae è questa: per la magistratura inquirente la vera legalità o legittimità non può che essere ritagliata sul modello di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente quella giudiziaria; per cui è da stigmatizzare come interferenza illecita o inopportuna ogni intervento autonomo di altri poteri istituzionali. (Giovanni Fiandaca)


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.